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«Almeno lo spero»: così Lacan, in un'intervista del 1974, dopo aver escluso la possibilità che la psicoanalisi diventasse una religione. Un augurio che, a cinquant'anni di distanza, sembra essere tornato più che mai attuale. La tendenza a secernere senso, a definire la giusta maniera di stare al mondo, va lentamente infiltrando il campo psicoanalitico, sempre più colonizzato da un sapere, presunto onnisciente, restio a rinunciare al principio assoluto, all'istanza trascendente: a quel concetto di autorità che, sotto le apparenze, conserva, per i più, un fascino persino rassicurante. Contro questa postura nostalgica, che trova nel cosiddetto declinismo l'istanza che meglio la rappresenta, occorre ribadire con forza l'intrinseca laicità della psicoanalisi: il suo esser nata senza dio e, per sopravvivere, il suo doverlo restare. Assumersi la responsabilità della propria ingiustificabile finitezza insensata: lungi dal configurarsi come esito nichilista del percorso di cura, ecco qual è, per una psicoanalisi disinteressata ad ogni esercizio di potere, l'unica forma possibile di emancipazione dall'assoggettamento alienante all'Altro.